Un file rouge sembra ripercorrere le opere del genio Schiele, un nevrotico – inteso in senso Freudiano – incontro/scontro tra la fanciullesca curiosità verso le vicende umane e la perturbante caducità dell’esistenza, fragile dinnanzi alla drammaticità degli eventi: carestia, guerra, dolore, malattia, morte.
“Ich Ewiges Kind” -io eterno bambino- dirà Egon poco dopo aver compiuto il suo diciottesimo anno di età, troppo giovane, eppure troppo consapevole della profonda crisi di valori che la società a cavallo tra l’800 e il 900 stava vivendo.

Raccoglie frammenti di artisti del calibro di Munch – il cui “Grido” era divenuto emblema della crisi esistenziale che l’uomo contemporaneo stava vivendo- Moser, Toorop e inconsapevolmente “viene iniziato” alla corrente espressionista, apportando ad essa però, tutta la sua unicità e potenza: la travolgente vitalità dell’età puberale corrotta dalla consapevolezza, ahimè precoce, della fragilità dell’essere umano.
Se Leopardi, per certi versi, nello Zibaldone, aveva elogiato proprio l’ignoranza dei fanciulli, rifugiati in una “sicura garanzia di felicità”, il giovanissimo Schiele diviene il cigno nero, brutalmente edotto e lucido.
Morirà ad appena 28 anni di influenza spagnola, pochi giorni dopo la scomparsa della moglie, nonostante una vita apparentemente breve, ereditiamo da Egon Schiele un ingente patrimonio artistico (340 dipinti e 2800 opere) dotato di quella ricchezza culturale e complessità intellettuale degna dei periodi di maturità di artisti più longevi.
In questa sede di riflessione, vorrei soffermarmi su un’opera che riesce a rappresentare in toto, a mio parere, quanto sopra evidenziato: “L’abbraccio”.

L’opera fu dipinta nel 1917, un anno prima la tragica scomparsa dell’artista, la guerra ormai era al termine e l’impero austroungarico alle battute finali.
La scena appare sin da subito dai connotati sacrali, due corpi nudi intrecciati, un lenzuolo bianco e uno sfondo di colore chiaro e terroso, null’altro, nessun accessorio o decorazione particolare.
“Il pittore abbandona ogni remora, squarcia il velo del comune e ipocrita senso del pudore, sceglie un nudo radicale e apparentemente scandaloso per mostrarsi e mostrare la propria personale tragedia che è poi la tragedia di tutti”.
Il lenzuolo bianco diviene il palcoscenico, in cui l’uomo e la donna danno vita ad un’apoteosi di pulsioni di vita e di morte. E così tutto acquisice un duplice significato, il lenzuolo bianco diviene giaciglio dei due amanti e sudario dei loro cadaveri, i corpi stretti l’uno all’altro, l’anatomia dei muscoli contratti ci trasmette la sessualità ma allo stesso tempo il terrore dell’abbandono, le linee sono marcate, i fisici scarni, spigolosi – riferimento allo stile di Oskar Kokoschka.
Il senso di angoscia viene accentuato dalla posizione dei due corpi stretti in corrispondenza del viso ma via via più distanti, prossimi al distacco.
Un bacio di Klimt martirizzato e disturbante che rifiuta il decorativismo e il secessionismo del suo maestro. La Gabbia d’oro della “forma” e del “colore” del maestro Klimt impegnato nel distogliere lo sguardo dello spettatore dalla paura e dalla sensazione di fragilità, è qui aperta.
L’intreccio freudiano tra Eros e Thanatos, fra pulsione di vita e di morte è più che mai aggressivo allo sguardo vivace dello spettatore che diviene testimone di uno scontro tra entità di pari potenza fra le quali si realizza una sorta di corpo a corpo permanente che non trova soluzione.
Quale sarà l’epilogo? Non è dicibile in anticipo. E’ sperabile che vinca la vita ma non è detto, nel mentre, assistiamo a questo momento congelato ed immortalato dal genio Schiele.
Fonti:
Note sulla fanciullezza nel pensiero di leopardi – Michele Zedda
https://poetarumsilva.com/2019/02/21/schiele-eros-thanatos-scocchera/ -Giangiacomo Scocchera
Schiele – a cura di Eva di Stefano (artedossier); Giunti