Nam June Paik “TV Buddha” tra Edonismo dell’io e Sorveglianza

am June Paik, TV Garden, 1974–77/2002 (installation view, Stedelijk Museum Amsterdam); Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf; © Estate of Nam June Paik; photo: Peter Tijhuis

Nam June Paik nasce a Seoul il  20 luglio 1932 da una famiglia di fabbricanti tessili. A causa dello scoppio della Guerra in Corea, si trasferisce prima ad Hong Kong poi a Tokyo, dove consegue la  laurea in Storia dell’arte e della musica.

La sua vita sarà caratterizzata, di lì in poi, da tre elementi fondamentali per comprenderne la sua essenza: musica, avanguardia tecnologica e nomadismo. 

Si trasferisce dapprima in Germania, dove incontra il suo mentore, il compositore John Cage nel 1958. 

(Celebre rimarrà la performance “Etude for Pianoforte”: dove l’artista, suonando Chopin, scoppiò improvvisamente a piangere, per poi saltare tra il pubblico e coprire di shampoo John Cage, non prima di avergli tagliato la cravatta.)  

E pochi anni dopo, nel 1961, aderisce al movimento artistico Fluxus, il primo movimento d’avanguardia strettamente legato alla musica.

Il Fluxus, in latino, è il flusso: un fenomeno che non ha forme e confini è un insieme di situazioni, percezioni e molteplici esperienze estetiche e sperimentali, la cui caratteristica fondamentale è l’interdisciplinarietà che può contenere diversi mezzi artistici (musica sperimentale, videoart, minimalismo). 

Ed è proprio in questi anni che il quasi 30enne Nam June Paik inizia a concepire la videoart come forma d’arte, divenendone il padre fondatore.

Nam June PaikElectronic Superhighway, 1995, videoscultura, 4,57 x 12,2 m. Washington, Smithsonian American Art Museum

Nel 1963 risiede in Giappone per un anno, dove grazie al supporto del suo amico ed ingegnere Shuya Abe, sperimenta elettrocalamite, televisori, raggi catodici e costruisce il Robot K-456, ed è proprio durante questo soggiorno che sboccia l’amore con l’avanguardia tecnologica, elemento che diverrà imprescindibile in tutte le sue opere. 

Nel 1964 si trasferisce a New York  dove inizia a collaborare con la violoncellista e pioniera della performance art, Charlotte Moorman. 

Gli Stati Uniti, nonostante gli innumerevoli viaggi ed il forte legame con l’Oriente, divengono la sua casa ed è qui che raggiunge il picco della notorietà.

La fama di lì a poco lo precederà ovunque nel mondo e le sue opere verranno esposte in musei, fiere internazionali ed in programmi televisivi. Morirà il 29 Giugno 2006 a Miami. 

Definito da molti come fondatore della video arte, Nam June Paik mette in discussione i confini tra cultura orientale ed occidentale, tra arte, tecnologia, musica e video.

Una volta disse: “Il Dada è il DNA dell’arte del ventesimo secolo e Duchamp è al suo centro, mentre la video arte apre una via d’uscita”. Per Paik, la video arte funziona come una macchina da guerra nomade deleuziana che muta elementi visivi creando linee veloci e interconnesse di trasformazioni e di metamorfosi percettive. 

Le attività artistiche di Paik hanno indicato, per la prima volta nel mondo dell’arte, lo smantellamento definitivo della specificità del mezzo artistico e della cornice concettuale monolitica della storia dell’arte tradizionale.  

TV BUDDHA

Sono una serie di opere di Paik, caratterizzate da una scultura di Buddha in posizione meditativa – detta di mudra- posizionato di fronte ad una televisione (o una pluralità di televisori) che proietta la sua immagine, ripresa da una telecamera posta sulla televisione stessa.

Si crea così un loop a circuito chiuso nel quale il Buddha sembra essere intrappolato. L’immagine televisiva sembra divenire la porta d’accesso ad una dimensione onirica in cui lo spettatore sembra essere attratto e portato a riflettere sui diversi significati dell’opera ma può benissimo apprezzarne la sola estetica.

Può quindi scegliere tra una fruizione “fast food” (“instagrammabile” oserei dire) oppure un lento assaporamento.  In breve, nel suo lavoro, convivono le due tendenze della società dei consumi di massa.  E proprio questo dualismo, rappresentato nei suoi trent’anni di opere di videoarte, caratterizza una “collezione di ideazioni nate nella società dell’informazione”

Buddha ma che fai? La gabbia del Boddhisatva e l’abbandono all’ edonismo dell’io.

Il Boddhisattva nella filosofia buddhista, è un uomo che nonostante abbia raggiunto il nirvana (l’illuminazione) decide di rinunciarvi provvisoriamente e di continuare a reincarnarsi al fine di aiutare gli altri a raggiungere l’illuminazione. 

Il Boddhisattva sceglie di scegliere (con riferimento al soggetto etico di Aut Aut di Kierkegaard), qui il Buddha rifiuta le convenzioni sociali, ripudia la sua “gabbia dell’altruismo” e si abbandona all’elevazione estetica e allo sfrenato edonismo dell’io. Questo gesto mostra una visione del mondo oggettuale come mero riflesso del sé, strumento funzionale all’espansione della propria personalità.

E’ evidente che questo sia momento in cui etica ed estetica si guardano allo specchio, l’estetica ha vinto essa prevale e celebra il narcisismo postmoderno, che va ad abbadonare tutte le preoccupazioni per la costruzione di uno spazio intersoggettivo e comunitario; il paradosso è evidente, considerando in primis, il soggetto che si specchia, Buddha, ed in secundis, le fondamenta della filosofia/religione buddhista. 

Lo spettatore amareggiato assiste alla sconfitta e allo svuotamento dell’eroe. Buddha è diventato un Don Giovanni Kierkegardiano, attore protagonista proiettato nel mezzo di comunicazione più complesso ed affascinante della nostra epoca, la televisione. Si è liberato dai precetti, e dalla dimensione intersoggettiva fatta di doveri e responsabilità ed è lì nella sua posa del loto mentre si specchia dinnanzi alla televisione, lo spettatore non è partecipe bensì assiste interdetto a questa scena dai connotati dissacranti.

La sorveglianza: Buddha si specchia? O è sorvegliato? 

Più angosciosa interpretazione ma oltremodo affascinante sarebbe quella di invertire il ruolo di Buddha e convertirlo da carnefice in vittima.  La dimensione religiosa è forse la sfera più intima dell’individuo ed il momento meditativo nella cultura orientale (ma ad oggi anche nella cultura occidentale grazie all’introduzione della mindfulness) diviene l’unico (non) mezzo di ricerca interiore. Può allora la telecamera abbattere le barriere e penetrare nell’ego?

La meditazione buddhista, a differenza di quella cristiana, è finalizzata a realizzare un vuoto ed è proprio durante il momento di vuoto che l’individuo riesce a trovare risposte circa la sua essenza, non c’è niente di più intimo e fragile.
Cerco di spiegami meglio, ho scritto che la meditazione è un “non” mezzo perché l’idea di ricerca provoca inevitabilmente un coinvolgimento e una corruzione del sé. L’obiettivo della meditazione è quello di eliminare le attività egocentriche ed ascoltare il flusso dell’io. Il parallelismo con la preghiera cristiana diviene inevitabile per comprendere proprio la differente profondità di intimità che possiedono queste due attività e conseguentemente immaginare quanto possa essere violenta la ripresa della telecamera.

La preghiera cristiana consiste in un dialogo, o meglio in una relazione con un Altro, è evidente il fondamento sociale. I buddisti accusano la preghiera cristiana di indurre l’individuo ad una chiusura solipsistica, in linea con l’ordinamento individualistico oggi dominante. “La relazione con l’Altro” della preghiera può trarre in inganno, perché solipsitico non deve essere inteso come sinonimo di egoistico bensì nella sua accezione filosofica, ovvero come fondato sul risolvere la realtà attraverso il sé medesimo, per questo la preghiera non riesce a rappresentare quella forte intimità e vulnerabilità tipiche della meditazione orientale.

Alla stregua di queste considerazioni e divagazioni, spero di esser riuscito ad evidenziare quanto possa essere brutale ed angosciante la presenza di una telecamera che cerchi di penetrare la “corazza” del buddha in meditazione e quella sensazione di fragilità e di sospensione data dall’immagine proiettata. La corazza si romperà? Riuscirà la telecamera a penetrare? E’ materialmente impossibile, tuttavia la sensazione di oppressione è palpabile. 

Rilettura nel 2022

Se da un lato quest’ultima interpretazione sembri richiamare le teorie del panopticon di Bentham e del Grande Fratello di Orwell. Scommetto che tutti e 4 i lettori/amici abbiano letto l’utimo paragrafo immaginando che dietro la telecamera ci potessero essere pochissimi sorveglianti malefici che osservavano gli innumerevoli sorvegliati “vittime del sistema”. 

Mi piacerebbe sovvertire questa visione dettata dal formamentis scolastico e rileggere (in modo totalmente arbitrario) l’opera di Paik attraverso le suggestioni di David Lyon, sociologo scozzese e della sua teoria su’ “La cultura della sorveglianza”. Secondo il Professor Lyon al giorno d’oggi le pratiche di sorveglianza sono esercitate dalla maggior parte dei cittadini in un regime di sorveglianza reciproca. 
Osserviamo, attraverso “Twitch” e altri social, la gente giocare, dormire, mangiare, e, in alcuni casi, nascere e morire; siamo ben consapevoli di essere sorveglianti e sorvegliati e lo abbiamo ormai accettato pacificamente (“Vuoi consentire a AppX di tenere traccia delle attività che svolgi nelle app e sui siti web di altre aziende?”, “Consenti”).  

Dal regime di sorveglianza reciproca però, siamo giunti ad un regime di auto-sorveglianza grazie alle app fitness, contacalorie, contabrufoli ecc. che tengono monitorate le nostre attività e ci rendendono schiavi del sistema delle performance. 

Si è passati dalla sorveglianza negativa e repressiva di Orwell ad una sorveglianza positiva, di empowerment e di stimolo del desiderio.  
Il non essere all’altezza dei risultati attesi ci sconvolge, ci travolge e ci fa sentire inadeguati. 
Autosorveglianza e sorveglianza orizzontale, nonostante siano alla portata di tutti i cittadini, non si traducono in una democratizzazione delle stesse piuttosto in una complessa riconfigurazione di poteri e di maschere -in senso pirandelliano- che creano gerarchie e diseguaglianze.  

Il risultato è sconvolgente accettiamo passivamente e acriticamente questo regime e  ci dimentichiamo, o ad esser brutalmente sincero, veniamo catturati dal fascino dell’Hi-tech che alimenta la nostra pigrizia ed il nostro potere.

E ci troviamo così al museo con gli amici, probabilmente al Tate Modern, mentre cerchiamo di fotografare il Buddha di Paik, inconsapevoli che dietro quella foto pubblicata e quei 100 likes ci sia celata la nostra schiavitù.

“La società della sorveglianza è arrivata e non indossa gli stivali della brutale repressione, ma i vestiti eleganti dell’efficienza hi-tech». David Lyon

Fonti

http://www.edueda.net/index.php?title=Paik_June_Nam

http://www.edueda.net/index.php?title=Fluxus

https://www.treccani.it/enciclopedia/bodhisattva_%28Enciclopedia-Italiana%29/

https://www.theartstory.org/artist/paik-nam-june/

https://www.interdependence.eu/archivio-sp-843/riflessioni/1197-meditazione-buddhista-e-preghiera-cristiana.html

 NJP Reader Contributions to an Artistic Anthropology, NAM JUNE PAIK Art Center Seoul 2010.

Etica dell’estetica. Narcisismo dell’io e apertura agli altri nel pensiero postmoderno Luca Serafini Quodlibet Studio 2017

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