Giovanni Bellini, detto anche Giambellino, prolifico e longevo pittore, produsse opere per oltre sessant’anni divenendo uno dei più celebri artisti rinascimentali.
Per tutta la sua carriera fu attratto ed ossessionato dal tema della Pietà, sin dai suoi primi esordi.
La Pietà è un tema artistico biblico che presenta l’immagine del Cristo morto sulle ginocchia della Vergine in lacrime, china sul corpo del Figlio disteso sul grembo che lo aveva accolto bambino.
Nata nel corso del Trecento come raffigurazione iconografica denominata “Vesperbild” in Germania, la Pietà si diffuse a macchia d’olio in tutta l’Europa centrale, tratto caratteristico era la posa che vedeva la madonna seduta con in braccio orizzontalmente Gesù. Il contrasto tra verticalità della madre e orizzontalità del cadavere – “horizontal Typus”- nonché la forte espressività facciale avevano l’obiettivo di coinvolgere lo spettatore e trasmettere pathos. Il primo a rivoluzionare il tema della pietà fu Michelangelo con la scultura “la pietà vaticana” nella quale riuscì a dare sinuosità e morbidezza all’intera opera rendendola il capolavoro del rinascimento.
Quest’oggi mi cimenterò in un’impresa difficile, cercare di comunicare attraverso questo testo le emozioni che riesce a trasmettermi la Pietà chiamata anche “Cristo morto sorretto da Maria e Giovanni” di Giovanni Bellini.
Wittengstein parlava del “linguaggio privato” poiché non comprendeva come fosse possibile esprimere le proprie intime esperienze attraverso le semplici e limitate parole.
L’atto della denominazione, realizzato attraverso il modello “oggetto/designazione”, dinnanzi a umori ed emozioni dimostra tutta la sua limitatezza.
Come posso attraverso la scrittura della parola “Dolore” far arrivare all’amico lettore il senso di mestizia che mi assale ogni qualvolta mi trovi dinnazi all’opera del Bellini?.
A mio avviso nel disegnare l’itinerario di questo percorso di analisi dell’opera, occorre partire da un’opera teatrale, più precisamente una tragedia greca risalente al 423 a.C.: “Le Supplici” di Euripide, definita da alcuni come “La Pietà Pagana”.
Sin dalla parodo emerge impetuoso il rapporto di attaccamento -in senso psicoanalitico – tra madre e figlio.
Quest’opera racconta la storia di un gruppo di madri argive intente a recuperare i cadaveri dei figli caduti in battaglia durante il fallito assalto di Tebe.
Nella scena relativa all’ingresso dei cadaveri dei guerrieri in città, il canto che le madri intonano manifesta tutta la complessità e la drammaticità del momento. Viene descritto il pianto e vividamente il gesto canonico del dolore -si graffiano le guance per la straziante visione- come se il dolore fisico riuscisse a colmare il profondo senso di confusione e di dolore che stavano vivendo.
“Mi agito, come nube che vaga sospinta da venti di bufera.”, confusione, smarrimento, agitazione ovunque vadano il senso di dolore vivido ed assordante le accompagna.
Ad un certo punto (V.60 ss.)[1] le donne chiedono che il loro addio avvenga attraverso un contatto fisico con le loro amate salme, una figura del legame biologico fra madre e figlio.
Vogliono avvicinare al loro seno per l’ultima volta l’amata prole – di qui pietà pagana- e desiderano inoltre volgere loro l’ultimo sguardo di addio.
L’immagine creata dai versi è vivida: uno sguardo opaco, velato, accecato dallo strazio. Gli occhi appaiono coperti da una sottile tenda grigia dietro la quale è possibile scorgere il rimpianto per quell’ultimo sguardo al corpo bello e giovane del figlio di cui i genitori andavano fieri e che ora appare tumefatto e deturpato dal sangue. Tutti elementi che torneranno, come vedremo, nell’opera del Bellini.
L’epilogo sarà ancor più tragico perché solo alla fine della tragedia le madri potranno stringere al seno l’urna contenente ‘un piccolo mucchio di cenere al posto dei corpi’ come per rinnovare l’originaria funzione materna del nutrimento: magra realizzazione del loro bisogno struggente di contatto fisico con il corpo dei figli, cui il poeta dà piena voce in tutto il corso della tragedia[2]
Dalla Pietà pagana del 423 a.C. passiamo alla Pietà cristiana di Giovanni Bellini, raffigurata circa 2000 anni dopo. E’ sorprendente vedere come le emozioni primitive – o, come le chiamerebbe Freud, impulsi- non mutino e accomunino tanto l’uomo rinascimentale quanto quello della grecia in periodo classico, quanto me e noi tutti.
La pietà di Bellini
Tra il 1457 e il 1470 Giovanni Bellini si cimenterà con il tema iconografico della Pietà sviluppando diversi dipinti, tuttavia l’opera che sconvolgerà il panorama artistico sarà proprio quella che chiamerà “ Pietà” o, “Cristo morto sorretto da Maria e Giovanni”. Lo storico francese Emile Male lo definirà “il più bello dei Cristi in Pietà”, l’umanista Bartolomeo Faccio “Una poesia silenziosa” ma quali possono essere le ragioni dietro tanta esaltazione?
Il dipinto di primo acchito appare poco prospettico, appaiono tre figure statuarie (Maria, Cristo e Giovanni Battista) come se al Bellini non interessasse realizzare un dipinto armonico quanto più una lucida rappresentazione (quasi teatrale).

Il cielo è plumbeo, metallico, la luce si diffonde in maniera omogenea sui corpi e sulla città rendendo la scena vivida ma allo stesso tempo angosciosa e fredda. L’uso dei colori smorzati e i giochi di luce calda – provenienti dalle lezioni mantegnasche- ricoprono la scena di un velo di angoscia e permettono di esaltare le figure centrali dei 3 protagonisti. Lo spettatore si trova gelato dinnanzi a questa tragedia ed invitato ad assistervi in punta di piedi.
Senza focalizzarsi sui personaggi per un momento ma osservando solamente l’ambientazione e la disposizone delle figure, ci si sente assaliti da un profondo senso di impotenza.
Perché provo l’irrefrenabile desiderio di accarezzare Gesù? Come è possibile che sia così vivida questa sensazione?
Una delle “genialità” adottate dal Bellini in quest’opera la si può percepire osservando la mano di Gesù in basso. L’intera raffigurazione sembra distaccare lo spettatore attraverso una lastra marmorea (che assume le sembianze di una balaustra), ma il punto di rottura di questo (volutamente) fallace tentativo è proprio la mano di Gesù che attraversa il limbo e trascina a sé lo spettatore inghiottendolo delicatamente all’interno della tragedia. Attraverso questa tecnica – di origine fiamminga- il nostro mondo e quello rappresentato da Giovanni Bellini si incontrano.

I tre protagonisti:
Il cadavere di Cristo è sorretto dalla Vergine e da San Giovanni, la delicata tragedia è palpabile:
la mano di San Giovanni regge il corpo con evidente e sorprendente facilità -la carne del fianco su cui viene poggiata la mano non è scavata dal peso delle dita- come se il Bellini non volesse rendere la scena troppo vivida e la figura del cadavere troppo pesante agli occhi del vivace osservatore.
Mentre San Giovanni affranto, come per rispetto, volge lo sguardo all’esterno della scena, Maria invece, avvicina il capo a quello del figlio combinandosi in un incastro perfetto, giammai toccandosi bensì sfiorandosi dolcemente.
Gli occhi opachi di Maria, accecati dal dolore, rivolgono lo sguardo al figlio morto, volge il prolabio al naso di Gesù come se volesse percepire un ultimo respiro, con la mano gli afferra il polso e lo tiene fermo all’altezza del petto, tentativo invano di donargli la rigidità del muscolo vigile.

La singolare forza espressiva dello sguardo di Maria, la fa apparire come in trance, distaccandola sia dal mondo dei vivi che da quello dei morti. Riprendendo un verso de “Le Supplici”: “Non appartengo ai morti, non ai vivi: destino singolare, il mio destino.” Non sono nè vive né morte ma destinate ad un lungo limbo di sofferenza.
Il dialogo tra i due è il capolavoro dell’opera, il rapporto di amore spirituale tra madre e figlio che supera i confini della morte e rimane lì vivido ed eterno, come ibernato, si risveglia ogni qualvolta un curioso passante si soffermi a mirare tale magnificenza nei corridoi della Pinacoteca di Brera.
[1] Il lutto e la cultura delle madri: Le “Supplici” di Euripide Author(s): Maria Serena Mirto
Source: Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 18, No. 3 (1984), pp. 55-88 Published by: Fabrizio Serra Editore
[2] https://www.visionideltragico.it/blog/covid-19/euripide-e-la-pieta-pagana